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Last 10 Posts [ In reverse order ]
mancamirko89Posted: 3/11/2012, 23:27
un salto anche al tipo che oggi in sardegna si è suicidato a causa dei debiti che lo opprimevano.
E.B.R.90Posted: 6/11/2011, 18:22
Le frasi scritte ovunque, sbafate e bagnate dalla pioggia: sullo striscione bianco in arancione «Vai e insegna agli angeli a impennare»: sul casco nero in bianco: «Eri uno di famiglia per me, salutami tutti lassù», sui fazzoletti di carta: «Corri sulle nuvole». Una bambina gli dedica un arcobaleno disegnato: «Mamma dice che sei salito in cielo cosi».

Giorgio viene da San Giovagni Maregnano e qui in fila nel silenzio assoluto di questa processione verso il corpo di Marco c'ha portato moglie e figlio, coetaneo di Simoncelli: «Da noi, che stiamo in mezzo, si tifano entrambi, Valentino e Marco. L'ho sempre seguito. Purtroppo mi tocca vederlo cosi. Mi tremano le gambe al pensiero di andar là. Solo che io non potevo stare altrove. Tanto il pensiero mi sarebbe andato qui».

Manuel Simone e Cristian ci sono venuti da Forlì. Hanno la stessa età che aveva Marco. Simone era con lui in Malesia, fa il meccanico in Moto Gp:

>>>
LaPresse
«Come lo vedevi in tv era. Un ragazzo normale, si beveva, si stava insieme. Quand'è scivolato s'è sentito un tonfo di silenzio in tutto il circuito».

Giorgia, mano nella mano alla mamma da Salerno, è in viaggio da stamattina. Ha sette anni, e riccioli biondi. Punta il ditino a un primo piano di Marco: «Papà, non se li taglia mica vero? Sembra Krusty il clown dei Simpson e a me fa tanto ridere».

Sascia e Runa sono fidanzati e vengono da Verbania, sul Lago Maggiore, dove a settembre Marco era andato in vacanza. Passano davanti al corpo. Sono due suoi tifosi sfegatati. Fanno vedere le foto ai box con lui quando l'hanno incontrato a luglio al Mugello. Gli avevano detto: «Battili tutti». Lui aveva risposto: «Ci provo, fatelo anche voi». Hanno percorso 460 km perche' sentono un dolore grande dopo la sua morte. E «ci provano» a scacciarlo via. Ma usciti dalla camera ardente si sganciano. Lui si riprende la mano, la porta al cuore: «Mi fa male».
«Come lo vedevi in tv era. Un ragazzo normale, si beveva, si stava insieme. Quand'è scivolato s'è sentito un tonfo di silenzio in tutto il circuito».

Giorgia, mano nella mano alla mamma da Salerno, è in viaggio da stamattina. Ha sette anni, e riccioli biondi. Punta il ditino a un primo piano di Marco: «Papà, non se li taglia mica vero? Sembra Krusty il clown dei Simpson e a me fa tanto ridere».

Sascia e Runa sono fidanzati e vengono da Verbania, sul Lago Maggiore, dove a settembre Marco era andato in vacanza. Passano davanti al corpo. Sono due suoi tifosi sfegatati. Fanno vedere le foto ai box con lui quando l'hanno incontrato a luglio al Mugello. Gli avevano detto: «Battili tutti». Lui aveva risposto: «Ci provo, fatelo anche voi». Hanno percorso 460 km perche' sentono un dolore grande dopo la sua morte. E «ci provano» a scacciarlo via. Ma usciti dalla camera ardente si sganciano. Lui si riprende la mano, la porta al cuore: «Mi fa male».
ondasatPosted: 1/11/2011, 02:20
sei sempre nei nostri cuori
blow8Posted: 1/11/2011, 00:31
grante sic
Gianniskate96Posted: 29/10/2011, 12:37
CIAO SIC .... MI MANCHI.. ERA UN GRANDE UN RAGAZZO SOLARE ... FELICE NEI MOMENTI TRISTI E CON UN SORRISO SEMPRE IN FACCIA .... IL TUO OBBIETTIVO ERA DI ARRIVARE AL GRADINO PIU ALTO CIOE IL PRIMO POSTO ..... CI SEI ARRIVATO .... IL PIU ALTO DI TUTTI CIAO SIC <3 <3 <3 <3 rip_1 rip_1 rip_1 rip_1 rip_1 rip_1 rip_1 rip_1 rip_1 rip_1 rip_1 rip_1 rip_1 rip_1 rip_1 rip_1 rip_1
robybertPosted: 27/10/2011, 20:30
ciao sic anche se non seguivo la moto gp un salutone sei un grande!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
E.B.R.90Posted: 27/10/2011, 15:19





Prefazione di Paolo Beltramo

CIAO MARCO
23 ottobre 2011
Non mi sembra vero, sono frastornato. Mi tremano le mani ed ho un senso di nausea da malessere. Anche se mi dicono da una vita che questo è uno sport pericoloso, non riesco ad accettare che Marco se ne sia andato in quella che poteva essere una banale scivolata.

Non la commento, non le voglio nemmeno rivedere quelle immagini. Sono crude, impietose, devastanti per la sensibilità di chiunque. Me ne frego persino di andare contro a quella che dovrebbe essere la linea editoriale di questo blog, un contenuto di argomenti tecnici e stop. Ma oggi non riesco e chiedo scusa per lo sfogo confidenziale che ho con voi. Qui, però, mi sento un po’ come a casa mia.

Marco, ve l’ho già detto: è stato un campione di umanità e di simpatia prima di tutto, l’unico pilota a cui ho chiesto una dedica su un poster che conserverò con cura e lo posizionerò su una parete di casa mia, in angolazione strategica, perché possa vederlo anche solo girando gli occhi. Con l’augurio che mi dia un po’ di forza che serve a superare momenti terribili come questi, dove ti accorgi che il “tuo” sport ti ha tradito, ancora una volta, facendo scontare la pena a un pilota che sentivo più vicino di altri.

Non oso mettermi nei panni del babbo di Marco, della fidanzata, della mamma e della sorellina, di Gresini, dei suoi amici, ma anche di Edwards e di Rossi… Chiudo gli occhi, soffro e saluto per l’ultima volta il Sic, con tanta, tanta nostalgia.

Addio Sic, campione bambino
Amico di Valentino Rossi, è finito sotto le sue ruote




(Ansa) MILANO - «Motor sport is dangerous», gli sport motoristici sono pericolosi: sta scritto sui pass che gli addetti ai lavori indossano nei paddock dei circuiti. Ma il fatto che le gare siano pericolose non può impedire di piangere per un ragazzo morto a 24 anni per inseguire la propria passione, correre a 300 all'ora su due ruote, fare staccate al limite, superare avversari e arrivare davanti a tutti. Marco Simoncelli detto Sic era ancora un bambino, è sempre stato un bambino. Felice di poter scatenare la propria passione, una passione per i piloti senza macchia e senza paura di epoche lontane. Così anni Settanta, vintage nell’aspetto e nel carattere, giocherellone, sempre sorridente. E disarmante nei modi: «Tutti mi dicono che sono naif, ma io non so mica che cosa vuol dire naif». Per questo probabilmente non capiva perché i rivali, Jorge Lorenzo in testa, ce l’avessero tanto con lui. Lo consideravano pericoloso, ironia della sorte, tanto che all’acme delle polemiche Sic dovette presentarsi sul circuito di Barcellona scortato da guardie del corpo, minacciato di morte dai tifosi catalani. Simoncelli in quell’occasione si sentì coinvolto in qualcosa di più grande di lui: con due occhi spalancati e spauriti si chiedeva che cosa avesse fatto di così grave per dover viaggiare sotto scorta. Lui voleva solo correre, e se qualcuno non aveva il suo stesso coraggio, affari suoi.
I CAPELLI - I capelli, quei capelli che lo «costringevano» a indossare un casco più grande di una taglia, erano il suo marchio di fabbrica, Napo Orso Capo in un mondo di polli da batteria. Lui era così, incontrollabile come i suoi riccioli, così appassionato degli anni Sessanta e Settanta da festeggiare una vittoria indossando una maglietta con l’immagine di Jimi Hendrix, altro eroe controcorrente. E altro eroe, purtroppo, scomparso nel fiore degli anni. Ma Simoncelli non era soltanto un’icona, un’immagine senza sostanza. Non è un caso che fosse considerato l’erede di Valentino Rossi. Perché del Dottore aveva sì l’istrionismo che l’aveva fatto diventare un personaggio, ma anche il talento in sella a una moto.

UOMO HONDA - Il titolo mondiale della 250 conquistato nel 2008, in sella alla Gilera – moto italiana pilota italiano – è stato il suo punto più alto, ma è nella MotoGp che Sic è diventato protagonista, tanto da sciogliere persino il cuore di ghiaccio di Shuhei Nakamoto, capo supremo della Honda, che su di lui puntava per farne l’uomo immagine della casa giapponese. E se non sei un ottimo pilota, è difficile che Nakamoto ti prenda in considerazione. Di Valentino aveva anche l’amicizia, capace di essere superiore anche alla rivalità in pista. E, dramma nel dramma, proprio Valentino lo ha investito insieme con Edwards su quella maledetta curva di Sepang.


GLI AFFETTI - Simoncelli lascia la fidanzata Kate, lascia il papà Paolo, presenza silenziosa nei paddock, discreto esattamente quanto il figlio Marco era caciarone. Il mondo della MotoGp oggi piange un bambino di 24 anni, e qualcuno proverà rimorso per averlo ferocemente criticato anche quando ormai era diventata una moda prendersela con Sic. Marco ne aveva sofferto, ma aveva sempre risposto in un modo: attaccando in pista. «Le gare non sono per signorine», disse un giorno. Già, le gare sono pericolose. Fino all’ultima curva.

Roberto De Ponti

EDITORIALE - Una giornata da (non) dimenticare

"Ed ora và, e insegna agli angeli come si impenna"
Non è cinismo, nè tantomeno indifferenza, la nostra: sia ben chiaro. Non a caso, il cool blood style non ha mai fatto per noi. E' solo che giornate come quella di ieri, nel bene, e soprattutto nel male, non vanno mai dimenticate. Anzi, al contrario, marchiate a ferro e fuoco nella memoria. Perchè è solo così che si dà estrema solennità ai ricordi, gli si conferisce vivacità nei segni che stila la nostra mente, e si rende degno d'esser vissuto il presente. Ed anche se generalmente ci vuole più coraggio a dimenticare, che a ricordare, noi stavolta faremo una salubre eccezione. Perchè è giusto che sia così.

E' del presente, che vogliamo cominciare a parlare. Seppur con meno spensieratezza e frivoleria, come nostra consuetudine. Del campionato che va, e conferma alcune nostre impressioni delle scorse settimane. A cominciare da Donna Juve, che, finalmente, con un nove in campo, l'ottimo Matri, ritrova la via del gol, pur però dando soddisfazioni plurime ai detrattori del comparto difensivo messo su da Conte, e soprattutto dalla dirigenza. Stessa legge, quella dei mancati gol di chi di dovere, che si dipinge sul quadro a tinte spente del Napoli, ancora senza gol, e senza concentrazione contro il Cagliari dei miracoli. Ma partenopei e piemotesi paiono accumunati da una variabile, cui già accennammo in passato, e che pare trovare sempre più riscontro: la metamorfosi da buone squadre a squadre dalla mentalità vincente. Passaggio non utile, ma fondamentale, ai fini dei più mirabili tra i successi. E non è un caso che entrambe, sinora, si siano inceppate contro squadre non certo incontrastabili, seppur quadrate e ben messe in campo. Eccola lì, la variabile impazzita: ciò che fa grande una squadra è storicamente l'approccio mentale voluttuoso contro i pari rango, e non certo le dimostrazioni di forza contro i deboli, ed i disimpegnati viaggi di piacere contro i forti. Ma questo è un passaggio successivo, che a breve dirà chi, tra le due, potrà veramente ambire a traguardi assai ambiziosi.

Traguardo che, a malincuore, non potrà esser visto, alla lunga, dalla straordinaria Udinese. Di come e quanto i friulani siano stati ben congegnati dirigenzialmente abbiamo già scritto: ma di come i meccanismi risultino rodati in campo, ed i singoli riescano a tramutare in oro colato i propri sforzi, beh, ci sarebbe veramente tanto da dire. A partire dalla straordinaria efficacia degli altri due predestinati al precoce addio al Friuli, Isla e Armero, ovvero i due fluidificanti che chiunque vorrebbe avere in squadra, Ranieri, Conte e Allegri compresi. Ieri, come sempre, la differenza l'ha fatta ancora una volta Di Natale: giocatore eccezionale, figlio pregevole di quella anomala stirpe dei trequartisti assurti al ruolo di bomber senza tempo (vedi Jovetic, che però non basterà mai, da solo, a Sinisa).
E qui nasce il - seppur banale e scontato - paragone spontaneo che vien da fare con gli azzurri di Mazzarri: entrambe le squadre mancano di reali alternative nei ruoli di prestigio. Se Cavani, nel Napoli, non segna, allora non si può chiedere nè a Mascara, nè a Santana, nè tantomeno a Pandev - tutti mediocri comprimari - di alternarsi all'uruguagio. E discorso simile vale anche per l'Udinese, che attende sì Floro Flores e Barreto, ma che non può nemmeno pensare di reggere per altri trenta incontri con lo stesso rendimento medio degli esterni, di Asamoah, e dei difensori titolari. Ecco perchè, alla lunga, potrebbe venir fuori l'Inter. La cui vera identità caratteriale, purtroppo, stenta a palesarsi. Ma che, intanto, ha voluto definirsi i contorni d'un undici razionale come la mentalità del suo mister. Difesa a quattro, Sneijder dietro le punte, Pazzini riferimento offensivo principale, gran gioco sugli esterni, ravvivati dal redivivo Maicon; mediana robusta e polmonare. Primo passo, compiuto: l'aver definito il chi si è. Adesso bisognerà vedere se quel chi si è basterà a dire se e cosa si vincerà.

Chi si è: trittico di parole dalla chiara interpretazione che finalmente pare esser stata palesata dalla Roma. E' finita, per i capitolini, l'epoca del "progetto atteso", del "dateje tempo", del "sì, ma nun semo er Barcellona". L'idea di gioco è stata ufficialmente metabolizzata dalla squadra: palla a terra ed affidata a coloro che sanno giocarla, Pizarro e Gago in testa. Con un surplus d'estro che risponde al nome di Lamela, e, da qui in avanti, soprattutto alla ricerca della chiusura del cerchio in difesa. In attesa di capire se Cicinho potrà coabitare con la spinta di Angel, e cercando di capire se Kjaer è quello ruvido e sciocco delle scorse settimane, Juan è il fragile colosso difensivo di sempre, e se Burdisso e Heinze possono colmare le toppe lasciate dai due. Ed un plauso va anche alla flessibilità mentale di Luis Enrique, che non avrebbe mai voluto giocare con un dieci puro in campo, e che poi - sapientemente instradato dalle caratteristiche di Totti, Pjanic e Lamela - ha saputo adattare la sua idea di gioco al materiale umano a sua disposizione.

A proposito di progetto: i cugini della Lazio non ne hanno uno. Forse non ne hanno mai avuto uno. Hanno sempre e solo avuto la robustezza tattica e mentale offerta da un cavallo di razza come Reja. Che oggi paga, almeno in campionato. Ancora in attesa dei gol di Cissè, che, se venissero a sostegno della consolidata affidabilità di Klose, Brocchi, Dias ed Hernanes, potrebbero regalare più del previsto ai sostenitori biancazzurri. Più del previsto, invece, ha già ampiamente fatto l'Atalanta argentina di Colantuono, altro mister col grande merito d'aver saputo tirar fuori il nettare dai carciofi. Perchè le due ali, Schelotto in primis, a compendio del trequartista atipico e del centravanti, sono la scelta migliore che il calcio moderno pare richiedere. E fa nuovamente impressione far notare come, a meno dell'enorme ingenuità di Doni, oggi gli orobici sarebbero i vice-campioni d'Italia.

Ah, già, a proposito: i Campioni d'Italia. Quelli che, piangono prima della partita. E continuano a piangere fino al 45'. Per poi smetterla di piangersi addosso, e ritrovare la speranza a seguito dell'ingresso del più nobile dei trequartisti del nostro campionato. Già, perchè ieri il miracolo non l'ha fatto il Milan, ma quello straordinario giocatore che risponde al nome di Kevin Prince Boateng. Che ieri ha dato l'ennesima dimostrazione di come si faccia a divenire idoli d'una tifoseria intera, partendo dal nulla, ed in poco più di 15 mesi. Ovvero, entrando sempre e comunque in campo con quell'incontenibile furore agonistico che dovrebbe esser alla base di tutte le prestazioni. Un fuoco talmente incandescente e vasto da spegnere la pioggia: e ci si perdoni il paradosso, financo lessicale. Un fuoco sufficientemente efficace da scrivere sul muro dei sogni dei tifosi, ancora una volta, una profezia chiamata scudetto.

Una profezia cui credono, adesso, in tanti, tra i tifosi rossoneri. Compreso il più sfortunato di loro. Cui il sottoscritto avrebbe voluto dedicare un intero Editoriale. Perchè emblema d'un talmente soave modo di vivere, ma soprattutto di far vivere lo sport, da lasciarti percepire amari e strazianti attimi di tenerezza. Ecco perchè, quella di ieri, è stata una giornata non da dimenticare: ma da ricordare. Perchè ciò che vorremmo portarci avanti, di questa giornata, non sono i gol in campo o le nefandezze dei difensori. Nè tantomeno le infelici e cupe immagini che decine e decine di testate hanno ostentato, e continuano ad ostentare. Nè, a maggior ragione, i celebri commenti di cordoglio, più tristi solo delle infinite banalità profuse dai social network e dai giornalisti senza scrupoli, vogliosi di scavare fin nel più intimo dei momenti d'una vita troppo degna d'esser vissuta, per esser avvilita dal turpore della ricercatezza dello scoop da prima pagina.

Ciò che vogliamo portarci appresso è semplicemente il vivo ricordo d'un ragazzo come noi. Appassionato dello sport. E soprattutto capace di trasmettere la piacevolezza che ne è alle fondamenta con la stessa leggerezza d'un ragazzino che sale per la prima volta a bordo d'una moto, e lascia sprigionare, più dal suo cuore, che dal rombo del potente motore che la alimenta, i mille sorrisi che t'abbracciano anche solo a guardarlo.

Sapete...Esiste una celebre locuzione latina, che in senso lato si lascia interpretare così: "Come sono effimere le cose del mondo".

Recita: "Sic transit gloria mundi".
Se non avessimo studiato latino al liceo, oggi saremmo sicuri che quel primo termine, più che un avverbio, sia un chiaro, per quanto amaro e profetico, riferimento a qualcuno che se n'è andato.
Alla prossima.

"Ed ora và, e insegna agli angeli come si impenna"
[Striscione apparso ieri a Coriano (Forlì)]

Alfredo De Vuono